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venerdì 26 dicembre 2008

Il mio cammino di Santiago - 2



Oggi è il due giugno 2007.
E’ l’inizio del cammino vero e proprio. Mi sento in una condizione di pura possibilità, tutto può accadere. Sono a Saint Jean Pied de Port, a duemila chilometri da casa, solo, con un vago obiettivo, una bici e tre zaini. E me stesso, le mie gambe, la mia testa. Un misto di gioia, curiosità, paura, proprio come ieri pomeriggio, solo un poco più di gioia e un po’ meno timore. Guardo fuori della finestra dell’albergo, il cielo è coperto. Può accadere, per esempio, che oggi piova sui Pirenei. Finisco di sistemare gli zaini sulla bici, faccio una colazione da spavento. Croissant, un bricco di latte, uno di caffè, marmellatine, burro, pane tostato, succo d’arancia, sulla tavola avanza solo una bustina di zucchero. Parto. Ci sono due strade, appena fuori del paese. Una passa sopra il cocuzzolo del monte su strada sterrata, l’altra passa per Valcarlos, un po’ più bassa su strada asfaltata. Prendo quella asfaltata, anche perché sulla guida al cammino si consiglia di non fare la strada più alta in caso di pioggia, in qualsiasi periodo dell’anno. La pendenza non è forte, la salita è costante. Appena lasciato Saint Jean Pied de Port comincia un bosco, che di tanto in tanto lascia spazio a pascoli, a mucche e vitelli che alternano lo sguardo tra il terreno e me. Eppure dovrebbero essere abituati a veder passare gente. Dopo circa un’ora qualche casa e dei cartelli mi annunciano la fine della Francia e l’inizio della Navarra. Le zone di confine. Qui sei con i francesi, fai un passo più in là e senti parlar spagnolo. Oggi c’è continuità territoriale, un tempo la frontiera, il gioco delle guardie e ladri, le storie e le leggende sui contrabbandieri, di uomini che camminavano di notte fino allo sfinimento, sfidando altri uomini ed i Pirenei, imprecando contro dio ed il cielo tutto. Un bel giorno arriva Schengen, poi la moneta unica ed il gioco è finito.
Comincia a piovere. Prima una pioggia fine, impercettibile, poi sempre più forte, insistente. Mi metto la felpa, il k-way. Fa freddo. Mi metto anche una calzamaglia, il cappello sotto il caschetto. Ho vaghe sembianze del comandante Nobile in procinto di esplorare la calotta polare. La valle si fa più stretta, la striscia d’asfalto si apre a forza sul versante del monte tappezzato di fittissimo bosco, non entrerebbe nemmeno uno spillo. C’è la nebbia, adesso. Vedo all’improvviso prendere forma due signori in cammino con un poncho impermeabile addosso.
Mentre li supero, uno dei due si volta verso di me con il viso gocciolante di pioggia e mi sorride esclamando:
“Buen camino!”
“Buen camino!” rispondo io.
Dopo la prima apparizione, mi aspettano altri incontri con pellegrini a piedi o in bici. Il sorriso è il denominatore comune. La salita non molla, la pioggia nemmeno. In fondo la nebbia accresce il senso di imprevedibilità, propria dell’inizio dei viaggi, vedi le cose solo nel momento in cui ti ci trovi, impossibile pianificare. Sto pedalando da diciotto chilometri, vado a meno di dieci chilometri l’ora, sto raggiungendo i mille metri, la salita non molla, non molla la pioggia, arriva la fatica, ma non insopportabile. Questa valle – e anche il primo paese della Navarra – è chiamata Valcarlos, in onore di Carlo Magno. Da questi luoghi trae origine la tradizione dei pupi della mia – mia almeno per origine, per metà sangue che mi scorre nelle vene, e per il bene che voglio a quella terra - Sicilia, a tremila chilometri da qui, che raccontano le storie dei paladini di Francia. Onore ai paladini di Francia, e onore ai loro antagonisti, i Mori, gli antichi Arabi che tanta bellezza e civiltà hanno lasciato nei posti in cui hanno vissuto, come nel nostro meridione e in tutta la Spagna. I miei pensieri - complice la fatica – si abbandonano alla solennità del luogo, alla traduzione di letture - scarne cronache sui libri di storia - in pezzi di realtà - angoli di cielo e terra, profumo di muschio e abeti, e di vento, vento che man mano che si sale comincia a farsi sentire – che ti danno un’esperienza profonda, un sentire a tutto spessore, con tutti e cinque i sensi. Raggiungo l’alto de Ibaneta, il passo a 1100 metri. Scendo velocemente, la ruota anteriore mi schizza acqua terrosa sul k-way, e in qualche chilometro arrivo a Roncisvalle, e qui il pensiero va ad Rolando, alla sua spada, al suo Olifante, alla retrovia presa in trappola. E’, in effetti, un luogo ideale per un agguato.
Raggiungo l’albergo del pellegrino, la reception è in uno stanzone lungo e stretto con muri in pietra, un tavolone in fondo e panche lungo i muri, popolate di umanità variegata - inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, giapponesi, americani - e di vestiti inzuppati di pioggia appoggiati su stendini di fortuna, e su qualche sedia. C’è calore, parole dette a bassa voce, sorrisi e sguardi. C’è comunione di intenti, un obiettivo comune, Santiago di Compostela..
Vado al tavolone in fondo dove ottengo da una gentile senorita la mia credencial del camino, un importante cartoncino pieghevole che attesta la mia condizione di pellegrino e mi dà diritto a dormire negli albergues, e il mio primo sello, il timbro che dimostra che sono passato di qui, da Roncisvalle. Mi cambio la maglia, e mi fiondo all’osteria vicina. Spolvero in poco tempo una zuppa di legumi, poi pesce arrosto con patate, un budino, acqua, vino, caffè, tutto a quindici euro.
Esco, rimetto i bagagli sul portapacchi e riparto. Qualcosa è cambiato, un cambiamento repentino, di quelli che avvengono solo in montagna: il cielo si è aperto qua e là, lasciando qualche sprazzo di blu intenso, le nubi sono meno minacciose, non piove. Mi aspetta una lunga discesa, la valle si apre, ritornano i pascoli, l’aria ora è tersa.
Discesa a capofitto, poi percorso vario con qualche saliscendi non impegnativo, segnato da fiumiciattoli. Ho imparato che quando con un ponte attraversi un corso d’acqua, finisce la discesa e comincia la salita. In un terreno collinare o montuoso è sempre così.
Raggiungo la periferia di Pamplona, perdo la fatidica freccia gialla che dà sempre la giusta via, passo per il centro, decido di non addentrarmi nel centro storico - non so, non mia attira più di tanto, e poi è meglio che faccia ancora strada, vorrei arrivare sabato 9 giugno a Santiago, so che non sarà facile e che devo percorrere almeno un centinaio di chilometri al giorno per sperare di farcela. Intuisco, anche se sono all’inizio del viaggio, che il Camino non è delle grandi città: è dei piccoli borghi, dei campi che si perdono a all’orizzonte, dei monti, dei sentieri ingoiati nella V di due colline. Le città sono un semplice corollario.
Mi perdo nella periferia, non riesco a trovare il Camino, dopo più di mezz’ora – nella quale rischio seriamente di entrare in autostrada – trovo una provinciale che mi porta verso l’alto del Perdon, risalendo a 800 metri di altitudine, in mezzo a campi di grano sferzati dal vento che danno riflessi cangianti di luce solare. E’ qui che mi prende un’emozione intensa, frutto di un incontro: un’aquila sopra di me, che volteggia e pare quasi che mi segua. Questo simbiotico stato di grazia – i volteggi del rapace che hanno la mia stessa direzione, chissà se il rapace gode della mia presenza, mi piacerebbe – dura cinque minuti buoni, e mi sento grato a quell’essere colmo di eleganza, mi sento grato alla vita di essere qui. Lo seguo con gli occhi finché non si perde all’orizzonte. Il cielo è ancora nuvoloso, ma queste son nuvole allegre, l’aria è fresca, per fortuna qui il sole tramonta più tardi che in Italia, potrò vedere di raggiungere Puente de la Reina. Delle pale a vento per l’energia eolica mi accolgono in cima al colle, un rumore sordo, continuo, un vento che mi sospinge alle spalle. Altra discesa a capofitto, Puente de la Reina è a una ventina di chilometri. La raggiungo, ho percorso 102 chilometri, sono stanco e sono quasi le nove di sera, entro nell’albergo del pellegrino. La reception è già chiusa, faccio il giro delle camerate, c’è un letto non contrassegnato da sacchi a pelo o zaini, solo una coperta, è libero, appoggio un mio zainetto. Ho una fame tremenda, farò la doccia in fretta per assicurarmi una cena abbondante. Il sole tramonterà verso le nove e venti.
Dopo una cena a base di bocadillos e tapas, rientro all’albergo del pellegrino, e mi rendo conto che il letto che ritenevo libero è occupato, la coperta era il segnaposto di un signore.
Dovrò dormire per terra con il sacco a pelo senza materassino.
Non mi importa niente, quell’aquila mi terrà compagnia. Nei miei sogni, nel mio immaginario.
Il cammino è appena iniziato, a domani.
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sabato 20 dicembre 2008

Il mio cammino di Santiago - 1

--> Lo scorso anno percorsi il cammino di Santiago in bicicletta. Un'esperienza indimenticabile, che consiglio a chiunque abbia un po' di tempo e un minimo di forma fisica per camminare o pedalare tutti i giorni per una settimana, due, un mese. Ovviamente non va vista come una impresa fisica, no. Qui i visi delle migliaia di persone che incontri in tutti i periodi dell'anno, i sorrisi soprattutto, si mescolano con le strade infinite della Spagna, i cieli blu cobalto, gli alberghi del pellegrino, con la solidarietà, le strette di mano, la fatica, le gioie, i bagagli, i tuoi stati d'animo,e anche con la curiosità di sapere se un'esperienza del genere ti darà qualche feedback importante sulla tua vita, quella che riprenderai al tuo ritorno alla tua Itaca, se un'Itaca ce l'hai. Al mio ritorno scrissi un resoconto, e chiesi ed ottenni ospitalità nel blog di un amico, Marco Candida, che ringrazio. Ho pensato di riportare anche qui il mio resoconto di viaggio. Nove puntate di nove giorni per me memorabili. Per evitare l'indigestione da parte dei miei quattro lettori, ne pubblicherò uno a settimana.
Il mio cammino di Santiago

E' il primo giugno 2007.

Sto guardando dall'oblò dell'aereo la linea netta, orizzontale che suddivide il bianco delle nuvole dal blu del cielo. Sono abituato a vedere le nuvole in alto, al di sopra del mare. Queste nuvole sormontate da un blu che potrebbe essere mare mi danno l'idea che il senso comune debba essere sovvertito in questi giorni.

Sono solo. Mi tengono compagnia le parole di Pier Vittorio Tondelli, Camere separate. Comincio il libro, lui scrive:

"Un giorno, non molto distante nel tempo, lui si è trovato improvvisamente a specchiare il suo viso contro l’oblò di un piccolo aereo in volo fra Parigi e Monaco di Baviera. All’esterno, ottomila metri più sotto, la catena delle Alpi appariva come una increspatura di sabbia che la luce del tramonto tingeva di colori dorati. Il cielo era un abisso cobalto che solo verso l’orizzonte, in basso, si accendeva di fasce color zafferano o arancione zen. Inquadrato dalla ristretta cornice ovoidale dell’oblò il paesaggio gli parlava del giorno e della notte, dei confini fra i mondi della terra e dell’aria e da ultimo, allorché si accese una luce nella carlinga e su quell’olografia boreale apparve il riflesso del suo volto appesantito e affaticato, anche del sé..."

Leggo questo straordinario incipit ad ottomila metri di altezza, in Francia, avendo appena rivolto lo sguardo all'oblò, a quella terracielomaremonti, ed avevo scelto per caso questo libro - da tempo volevo leggerlo - la sera prima, a casa mia, tra i miei numerosi libri che non ho ancora letto. L'ho scelto intuendo forse l'incipit, leggendolo attraverso la copertina? Non è la prima volta che mi accade una sovrapposizione di eventi così netta, e questo mi accade con maggiore frequenza durante un viaggio. Forse non si inventano le storie, semplicemente si raccontano in modo diverso. Persino gli accadimenti sono talvolta gli stessi, è diverso l'occhio, il punto di vista, e l'andatura.

Il cammino. E' ciò che desidero fare in questi giorni.

Camminare, a modo mio.

La bicicletta sarà il mezzo, un modo di vedere, nient'altro. Il fine? Non lo conosco, per quanto voglia arrivare a Santiago, vicino a Finisterre. Il cammino, il viaggio assume un'importanza maggiore del fine, della meta. Metà, o quasi tutto, è il cammino, e l'arrivo è solo un attimo. Nel quale tutto viene inghiottito, spazzato via dal ritorno, dal senso comune che riprende il suo posto, nel quale il mare starà al di sotto delle nuvole. Ma questo avverrà il dieci giugno. Oggi è il primo giugno.

Continua a guardare fuori dall'oblò, e buen camino, Toni.

Arrivo a Biarritz alle tre del pomeriggio, dopo due tratte aeree (Pisa-Londra, Londra-Biarritz), attendo il borsone con la bici sul nastro degli "Oversize luggages". Sono solo, tutti stanno all'altro nastro, quello un po' più stretto, quello di senso comune. Arriva, me lo trascino fuori dell'aeroporto. Faccio un veloce spogliarello e mi rivesto da ciclista. Rimonto la bici, gonfio le ruote, piego e metto il borsone portabici in fondo allo zaino, attacco gli zainetti laterali sul portapacchi che sta dietro. Non trovo l'intelaiatura per poter appoggiare il borsino - quello dove ripongo mappa, soldi e documenti - sul manubrio. L'ho lasciata a Lucca. Cazzo. Dovrò per tutto il viaggio legare la borsina dietro, sullo zaino centrale. Che poi, quest'ultimo, è anche pesante, ho esagerato con i bagagli, e mi sporge oltre la ruota posteriore. Mi innervosisco, ci sono alcune gocce di pioggia. Devo andare. Chiedo ad un tassista la strada per St.Jean Pied de Port. Prima rotonda sinistra, poi prendi la seconda rotonda a sinistra e dopo tre chilometri a destra. Il problema è che per me la seconda rotonda lo era dal momento in cui ho girato alla prima, per lui era la seconda in assoluto. Me ne accorgo dopo tre chilometri. Devo tornare indietro, mi sono infognato nella trafficatissima N10 che va verso San Sebastian. Solo che non posso attraversare la strada, dovrò camminare con la bici a piedi contromano, stando attento di non essere beccato da una delle tante macchine che sta provando in pista il giro più veloce. Dopo mezz'ora ritorno al bivio che mi porta verso la D918 per St. Jean. Sono le cinque e mezzo, devo arrivare prima del tramonto, sessanta chilometri all'arrivo. Tre chilometri di traffico e smog, poi con la D918 va meglio. Saliscendi, boschi e un paesino di tanto in tanto. Ho paura. Un po' per la pioggia, temo che mi sorprenda da un momento all'altro, un po' per i bagagli - rimarranno stabili? - che mi sembrano anch'essi oversize, un po' per questa strada che a tratti va a quattro corsie - non è proprio deserta, il traffico locale aumenta vicino ai paesi - con furiose discese e lente risalite. E per la luce. Non so a che ora va giù il sole, ma spero che tramonti almeno mezz'ora più tardi che da noi.

Alcune di queste paure si affrontano sempre al primo giorno, è così, per forza.

Dopo una quarantina di chilometri mi fermo ad una patisserie-brasserie-bar. Mangio un pezzo di torta di mele, buonissima, compro acqua fresca - ero partito con una sola bottiglietta - e scambio due battute con il tedesco Fabien, che viene da Monaco e ha già percorso duemila chilometri in bicicletta, ora va verso Biarritz, risale per la via atlantica, a lui non piacciono le salite forti, e vuole avvicinarsi a Santiago guardando costantemente l'Oceano. E' da più di un mese fuori di casa, ha finito gli studi e non ha ancora cominciato a lavorare. Ci salutiamo. Buen camino, è la prima volta che me lo sento dire. La prima volta che lo dico.

Gli ultimi venti chilometri sono un saliscendi che sale più che scendere, visto che St. Jean è a 230 metri di altitudine. Mi rilasso un po', arrivo che manca un quarto alle nove. E' un bel paesino, borgo medievale, un fiume, una porta antica, è deserto, sta cominciando a piovere. L'ufficio del turismo è chiuso, non sapendo che l'albergo del pellegrino - dove mi sarei potuto fermare a dormire, ne avessi intuito l'esistenza - e la sua accoglienza sono una cosa diversa. Cerco un albergo, trovo una camera. Quando esco per mangiare piove a dirotto, il che mi rallegra. Mi ha permesso di arrivare tranquillo a destinazione, anche se non mi fa ben sperare per domani, per i Pirenei da attraversare.

Insomma, sono al punto di partenza del Camino, le sensazioni sono ambivalenti, paura, timore, curiosità, desiderio di muovermi anche se lentamente, ma non ho ancora rovesciato il senso comune, il mare è ancora sotto di me. Spero nella partenza di domattina. Spero in questo viaggio, anche se non so cosa esattamente sperare.

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giovedì 11 dicembre 2008

L'attesa



( Da Repubblica del 21/11/2008: Si è suicidato a 19 anni in diretta web. Abraham K. Biggs, secondo una prima ricostruzione, ha ingerito un cocktail letale di pillole mentre trasmetteva la sua immagine davanti alle webcam della famosa e seguitissima Justin Tv, un sito di live videostreaming. Tutto sotto gli occhi di altri 1500 utenti della comunità virtuale che, forse convinti si trattasse di una messa in scena, avrebbero addirittura incoraggiato il giovane a compiere il gesto.).




Sono stanco. Non gliene fotte a nessuno di me. Ma oggi è un gran giorno. Il giorno del giudizio. Mi levo dai coglioni, gente. In grande stile. Poi vi dirò com'è andata, no, magari...Io ve lo direi, boh che cazzo ne so, insomma mi piacerebbe dirvelo.
Sarebbe anche interessante vedere quelle facce di merda al mio funerale. Tutti che fanno a gara a chi piange di più. Ci sarà la stampa, immagino. Tutti gli amici della palestra, gli scoppiati di testosterone che non gliene frega un cazzo di me, ma almeno trovano l'occasione per mettersi un po' in mostra davanti alle telecamere. Ci sarà lei, sicuro. Me la immagino a dire "rest in peace", quella zoccola da 100.000 dollari all'anno. Rest in peace. Mi ha scaricato per il tipo danaroso, con la Corvette Cabrio. Vaffanculo. Un po'di piantini, cara, e vai, le telefonate raddoppiano; così la grana aumenta. Ha delle gran belle tette, lei. Me la sono ripassata un bel po'. Ora va col tipo. Ma insomma, ho fatto delle gran belle trombate, anche se ho solo 19 anni.
Basta, sono stanco. Mi spiace per i miei vecchi, per il mio pa'. Ce l'ha messa tutta, poveraccio. Il college che non funzionava, poi il lavoro. Marco sempre visita, vero pa'? "Non deludermi figliolo." Mi diceva di continuo, il mio vecchio. E io invece del college tutta la notte in disco a sballarmi. Con un po' di grana, quella manca sempre. Chissenefrega adesso cosa manca. Chissà come funzionerà. Che sentirò? Io non sento niente, è questo il problema. Anzi, no, sento; sento quando mi arriva la merda, è fortissima, mi travolge. Non sopporto di passare altri 60 anni di questa merda. Domani questa merda non ci sarà più, gente. Il lavoro che non ce la faccio ad alzarmi, come al college. Tutte quelle ore uguali, e quei giorni uguali. Neanche mi prendono sul serio. Ho messo l'annuncio sul sito, qualche commento e qualcuno mi ha detto "Dai, fallo. Tanto non hai il coraggio."
Chissà che penserà, dopo, il tipo. Prima di lei c'erano Paula, Stephanie, Linda. Non mi davano niente. Linda mi odia. Dopo la scopata, una sigaretta e sei come prima. Sì scopare è uno sballo, come lo sballo che è uno sballo anche quello, ma dura poco. Ti devi fare un culo così per rimorchiare, poi la scopata è un soffio. Bello, ma dopo ritorna la merda. Cazzo. Il dottore dice che sono crisi adolescenziali. Passeranno. Un cazzo. Io lo so, fottuto dottore che torneranno sempre. Ci rimarrai male anche tu, fottuto dottore.
La mia sorellina. Lei non c'entra niente con questa merda, anzi è bene che lo scriva che i miei vecchi e la mia sorellina non c'entrano. E' una questione solo mia. Al vecchio vorrei dire:"Pa', ci ho provato. Non ce l'ho fatta."
Voi non c'entrate, è chiaro. E' chiaro, no? La questione è tutta quella merda che mi arriva addosso. Questo sì, è bene che lo scriva.
I contatti aumentano. I chattatori del cazzo transitano e guardano e pensano e scrivono:"Fottuto nero con la puzza sotto il naso, sì sei un fottuto nero che non ha il coraggio di fare quello che hai detto." Poi si levano di culo.
"Lo vedrete tra poco" Scrivo.
"Sì? Dai faccelo vedere. Non hai il coraggio, fottuto nero."
"Lo vedrete."
Ora prendo il cocktail. Xanax, valium, fenobarbital. Sembrano alieni. Alieni che mi portano via. Guarda quanta gente che mi vede. Guarda là.
Ora. Adesso. Giù, un sorso. Via.
"Che cazzo hai preso, Abraham? Le caramelline della mamma?"
"Ma chi vuoi prendere per il culo, fottuto nero?"
"Hey Biggs, che hai preso? Non farai sul serio?"
"Fottiti Abraham."
Ora basta guardare. Che faccio? Spengo la webcam? No. Chissà, forse qualcuno vedrà il momento, lo riconosce anche se dormo. Vede volare l'anima. In quel momento, come si chiamava quel film? Ah sì 21 grammi. Tra un po' se ne andranno 21 grammi. Basta. Mi sdraio.
Quanti saranno a guardarmi? 1000? 1500? Secondo me tra un po' arriva uno sbirro e mi porta all'ospedale. Quasi quasi sarebbe carino, forse lei mi riconsidera, forse me la scopo un altro po'. Sarebbe una buona cosa per i miei vecchi, soprattutto. Che faccio? Scendo dal letto e chiamo il 911? Quasi quasi. Ho un po' di strizza. Non è che ho fatto una cazzata? Ma tra un po' arriva lo sbirro, sì, arriva. E' impossibile che non arrivi, cazzo. Millecinquecento persone, un gran teatro, qualcuno avrà già chiamato. Telefono io o aspetto lo sbirro? Aspetto, dai.
Faccio un sonnellino e aspetto.