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martedì 27 settembre 2011

El Camino del Norte 7: la curva






Giovedì 30 giugno, mattina. Prima di addentrarmi nel percorso di oggi, girello per il lungomare di Gijon. Ci sono nuvole, l'aria è fresca, per oggi le previsioni danno un tempo variabile, ma senza pioggia; è un sollievo saperlo, visto che negli ultimi tre giorni l'acqua mi ha sempre fatto compagnia. Mi soffermo nella piazza centrale, alcuni bei palazzi le fanno da cornice, e i tanti fiori fanno da cornice ai palazzi. Lascio il centro, vado verso una strada che sale, taglia una collina ed arriva ai trecento metri. Si inizia un percorso rugoso per ciò che riguarda l'altitudine e anche per le curve, e in trenta chilometri si raggiunge Aviles, una città abbastanza grande appollaiata intorno ad un grande estuario. Le strade sono trafficate; credo che dipenda dal fatto che l'autovia corre un po' più a sud, e non è facilmente raggiungibile dai paesini successivi a Gijon. Da qui in poi la fascia costiera si restringe, e le strade locali, la N-632 e la autovia A8 si intrecciano continuamente. Di tanto in tanto mi trovo sulle locali, poi sulla Nacional, dove i camiones mi intimoriscono un po'. Per fortuna la strada si avvicina al mare, e i panorami sono molto suggestivi. A costo di risultare noioso, ripeto che la caratteristica per me più sorprendente di questa costa è la vegetazione lussureggiante che quasi si tuffa in acqua. E così la campagna, gli allevamenti, le fattorie, anche tutto questo si trova a pochi passi dal mare. Molte case possiedono gli horreos: una specie di palafitte su terraferma dove venivano conservati i viveri al riparo dagli animali predatori. Sono quasi sempre in legno, anche se alcuni hanno i quattro pilastri in pietra, e molti di questi edifici sono sghembi, pare che debbano cascare su un lato da un momento all'altro. Dopo alcune ore di pedalata, un cartello mi avverte che a causa di lavori sulla A8, la N-632 viene utilizzata come autovia, e devo uscire al primo svincolo. Che mi fa fare una discesa vertiginosa, raggiungendo in breve tempo il livello del mare. Dopo aver dato un'occhiata alla cartina, mi scoraggio: la strada sale e scende di continuo, percorrendo a zig- zag dei boschi che si trovano sotto la sopraelevata autostradale. Il viaggio improvvisamente rallenta: un po' troppo, visto che ho due giorni e mezzo per raggiungere Santiago. Vado avanti per inerzia, e in questo momento non mi rallegra nemmeno il paesaggio boschivo. All'improvviso, dal nulla si materializzano tre ragazzini con la mountain-bike. Avranno quindici anni, sì e no. Mi pungono nell'orgoglio, li seguo, riesco a stare in coda al gruppo. Ogni tanto si girano verso di me con l'aria divertita. Mi diverto anch'io. La strada riprende a salire, li seguo, fino alla sommità di una collina, e cerco di star loro vicino anche nella seguente discesa, circa una decina di metri distante. Percorrono le migliori traiettorie, sembra che conoscano anche i sassi. La discesa è lunga, la velocità aumenta. Arranco, ho un po' paura ma sto vicino a loro. Ecco arrivare la meraviglia: una doppia curva destra-sinistra, poi tutti e tre allargano sull'altra corsia - vanno così in sincronia che sembrano uno stormo di uccelli - e affrontano un tornante a U a destra costantemente piegati, con un ginocchio che quasi tocca l'asfalto. Sono bellissimi. Chissà quante volte hanno percorso quel tornante. Li vedo ancora nella mia mente al ralenty. Curva a sinistra lieve, poi si piegano decisi, insieme, come una pattuglia di volo acrobatico, dall'alto dei loro quindici anni. Niente può accadere loro in quell'istante, li protegge la bellezza ed il coraggio. E la sfrontatezza, hanno il mondo nelle loro mani. Siamo al fondovalle, si rialzano sui pedali, divertiti ed eccitati si scambiano le loro impressioni su La curva. Li raggiungo e continuo ad ammirarli. Salgo insieme con loro, il loro gesto mi ha regalato una grande energia. Sorridono, per niente spaventati da un cinquantenne suonato che ricambia il loro sorriso. Alla fine della salita piegano verso un gruppo di casette, uno qualunque di quegli agglomerati di casette sperduto in mezzo alla Cantabria; ma per me non è più uno qualunque: è l'agglomerato dove vivono quei tre fantastici ragazzi. Io proseguo oltre e ci scambiamo ampi gesti di saluto.
La strada serpeggia tra bosco e riviera fino a Luarca, un paese con un bellissimo porticciolo e tante casette colorate affacciate sull'acqua. Alle nove e mezzo, dopo 115 chilometri non facili mi precipito in albergo con quella curva e quei tre ragazzi scolpiti nella mente, un ricordo che riesce ad alleviarmi qualsiasi tipo di stanchezza.
Buen camino

lunedì 19 settembre 2011

San Pellegrino in Alpe, sette mesi dopo. Il sequel



Per uno come me, cresciuto sulla riva di uno scoglio e alle pendici del monte Massoncello, avere l'opportunità di arrivare con le mie gambe a San Pellegrino in Alpe è una grande gioia. Opportunità, ho scritto. Infatti ci avevo provato a febbraio scorso, ma a due tornanti dall'arrivo ero sceso di bicicletta, percorrendo gli ultimi metri a piedi. Oggi è il 30 agosto e ci riprovo, non prima di essermi esercitato a staccare più volte e il più rapidamente possibile gli scarpini dagli attacchi dei pedali; infatti una delle mie paure è quella di non farcela più e non poter sganciare i pedali in un tratto ripido, con il rischio di cadere. Stavolta parto dalla stazione di Castelnuovo con la bici in carbonio e con un rapporto non proprio tenerissimo: il 39x27, ma è il più pedalabile di cui posso disporre. La giornata è ideale: venti gradi, poco vento, sole, e niente traffico, essendo un giorno feriale. Non ho scuse, insomma. Tutta la salita si può dire un preludio agli ultimi due chilometri e mezzo, un preludio fatto di salita ripida ma non impossibile. Gli unici rumori percepibili sono il mormorio del vento tra gli alberi, il canto degli uccelli, il mio respiro.
Eccolo. Il cartello preannuncia la pendenza al 18%. Mi alzo sui pedali, il mio affanno cresce a dismisura. Supero il primo muro lungo circa cinquecento metri, la salita si addolcisce lievemente e mi illude che la parte dura sia ormai finita; eppure dovrei ricordarmi la sofferenza della volta precedente, non dovrebbe essere una sorpresa. Un'altra illusione è, dopo poco, causata dal fatto che alzo gli occhi e vedo delle case: l'inganno e la speranza sono la convinzione che quelle case siano l'ingresso di San Pellegrino. Due tre tornanti e raggiungo le case, ma San Pellegrino è molto più su, e ricomincia un altro muro senza tornanti. E' durissima. Provavo una fatica simile quando facevo i 5000 e 10000 metri su pista in atletica leggera. Ma avevo diciotto anni, ora ne ho cinquanta e mi vengono in mente quei trafiletti di cronaca a pagina ventisette, taglio basso: muore ciclista cinquantenne stroncato da infarto, insomma, robe così. Devo ancora andare a fare l'ecg sotto sforzo, mi viene in mente adesso, è un po' tardi. Continuo a salire appesantito da questi pensieri cupi e dall'acido lattico in quantità industriale nelle gambe, ed ecco l'ultimissimo tratto che va fisso al 22%. E' terribile, anche perchè l'inganno finale è dato dai  quattro cinque tornanti in cui la pendenza non cambia minimamente, come se fossero dei finti tornanti. Sembra di vedere un festone di carnevale: se lo tieni da un capo, e tiri dallo spago in basso, si dipana uno zig zag di carta estremo, simile a quelle curve. Una fatica inumana, un rantolo, e il pensiero dominante di tenere duro. Nemmeno quando vedo l'ultimissimo tratto prima della piazza mi illudo di avercela fatta.
Invece sì. Ce l'ho fatta.
Con le pulsazioni a mille, il cuore che mi esce dalla gabbia toracica, un affanno degno di un enfisema scendo dalla bici soddisfatto di essere sceso non prima di essermi trovato davanti al bar della piazza. Una gioia un po' infantile, ma che ci volete fare? Ad una certa età si torna bambini. E la crostata di mirtilli - come quella di Nonna Papera - che mangio al bar mi sembra una degna ricompensa.


lunedì 12 settembre 2011

El Camino del Norte 6: oceano mare








Mercoledì 29 giugno 2011, mattina. Sto già pedalando da un'ora, concentrato sul cambiamento di regione: mi lascio alle spalle la Cantabria che avevo trovato a Castro Urdiales sotto un diluvio ed entro nelle Asturie, poco dopo la campagna di San Vicente. Mi è sempre piaciuto cambiare regione durante un viaggio. Immaginarsi vite diverse sulla base di linee di confine spesso segnate da valichi o da ponti, linee che demarcano usi e linguaggi e tradizioni, ma che si sviluppano anche in assenza di barriere. Come nell'appennino toscano: a Montepiano si parla un dialetto spiccatamente pratese e a qualche chilometro di distanza, a Castiglion Dei Pepoli, si parla emiliano, senza alcun gradiente di concentrazione tra i due modi di parlare. Qui, tra la Cantabria e le Asturie, di diverso c'è l'altezza dei monti dell'entroterra. Si vedono le cime di duemilacinquecento metri dei Picos de Europa che corrono parallele alla costa. Con il movimento della bici le vette assumono prospettive continuamente diverse, essendo sfalsate su tre file, come lo sfondo di un palcoscenico che è vissuto diversamente in base alla posizione dello spettatore. Questo spettatore - il sottoscritto - si farà tutta la platea da est a ovest, con due scenari diversi: sulla sua sinistra i monti, e sulla sua destra l'oceano, un mare forse indispettito dalla impossibilità di influenzare climaticamente estesi territori: si fa sentire solo su una esile striscia di costa, lo sbarramento dei monti è troppo alto e netto. L'Oceano si arrabbia e si infuria con la costa, frastagliandola a più riprese. Lo scenario della costa è, a mio avviso, ancora più suggestivo dei monti. Scogliere, spiagge, falesie, isolotti in mezzo alla bassa marea. E la vegetazione che degrada direttamente in mare. Per oggi lo spettacolo è assicurato, per giunta reso ancor più gradevole dalla assenza di pioggia e dalle nuvole che si rincorrono giocose. Durante il percorso incontro anche tre estuari che vanno nel mare, ed è bello vedere la commistione di acque diverse. In genere l'Oceano, specie se con l'alta marea e con vento di mare, accoglie con diffidenza l'acqua dei fiumi, quasi una specie di concessione, e in alcuni casi è l'oceano ad entrare nei grandi estuari. Come oggi. Nell'ultimo di questi, l'Oceano si insinua nel fiume Sella - a Ribadesella, appunto -  e c'è una stasi tra queste due forze, tale per cui si sono formate dune di sabbia, insenature, e belle spiagge. Più in là riprende vigore lo scoglio, ce n'è uno forato, un arco in mezzo al mare. Le ore trascorrono sulla bici, fatta eccezione per brevi pause con cocacole, bocadillos y tapas. Le frittate di patate, che buone. Si fanno le otto di sera e devo affrontare un'ultima fatica: Una serie di saliscendi con una specie di valico a 500 metri che mi separa da Gijon, meta ultima di oggi. Via via che salgo, c'è un vento fresco e sole. E ombra frammista a sole. Non so come spiegare. Forse le piogge dei giorni precedenti hanno ripulito l'aria e si vedono i contorni più netti, che contrastano con i morbidi chiaroscuri che in genere si apprezzano al tramonto. E' una luce gialla, sembra mattina. Comincia una lunga discesa che mi porta sulla riva del lungomare cittadino di Gijon. Il resto è pura cronaca: albergo, doccia, cena di milioni di calorie. Il vantaggio di mangiare quasi alle undici di sera? Chiedete la zuppa di pesce, vi daranno un pentolone enorme, quello che è rimasto della zuppa di tutta la serata di lavoro. Con buona pace del cameriere piuttosto stupito di riportarlo via praticamente vuoto. Qui c'è lo spettacolo della escanciada del sidro: un cameriere che non fa altro nella vita, passa per i tavoli a riempire i bicchieri di sidro, versandolo dalla bottiglia più in alto possibile e facendo inspiegabilmente sempre centro.
Due passi nel centro di Gijon, c'è un bel centro medievale con una piazza piastrellata in ceramica, tanti vasi di fiori, un arco in pietra grigia che dà accesso alla piazza .
E poi l'albergo, a nanna. 
Buen camino